lunedì 14 marzo 2016

Perché votare sì al referendum interessa anche i lavoratori del comparto degli idrocarburi

di Enzo Di Salvatore 
Agostino c – Siamo a largo di Ravenna, a 18km dalla costa. Gestita da Eni la piattaforma è collegata a 12 pozzi che estraggono gas 

I sostenitori del “no” al referendum abrogativo sulle estrazioni di idrocarburi in mare utilizzano due argomenti principali: il fabbisogno energetico nazionale e i posti di lavoro. Entrambi gli argomenti, però, costituiscono un falso problema. Le multinazionali che chiedono un permesso per cercare o una concessione per estrarre idrocarburi non lo fanno per corrispondere alle esigenze del fabbisogno energetico nazionale né per creare posti di lavoro. Lo fanno solo per perseguire i propri interessi economici; e questo lo capisce anche un bambino. Non c’è nessun collegamento diretto tra le attività estrattive e il fabbisogno energetico nazionale. Dopo la scoperta del giacimento, le risorse presenti nel sottosuolo appartengono allo Stato, e cioè a tutti noi. A seguito del rilascio della concessione, però, quello che viene estratto diviene di “proprietà” di chi lo estrae. La società petrolifera, in questo caso, è tenuta a versare alle casse dello Stato solo il 10% del valore degli idrocarburi estratti se l’attività riguarda la terraferma e solo il 7% del petrolio e il 10% del gas estratti se l’attività riguarda il mare. Dunque: il 90-93% degli idrocarburi estratti può essere dalla società petrolifera portato via e venduto altrove oppure può essere rivenduto direttamente allo Stato italiano.
Veniamo alla questione “occupazione”. Oggi, la realizzazione di progetti petroliferi non crea di per sé posti di lavoro significativi. Basti pensare al progetto “Ombrina mare”, il cui procedimento per il rilascio della concessione è stato chiuso solo di recente (ma la norma sulle «durata di vita utile del giacimento», sottoposta ora a referendum, “congela” di fatto il relativo permesso di ricerca). Qualora fosse stato realizzato, il progetto avrebbe dato lavoro solo a ventiquattro persone. Certo, ci sarebbe stato comunque l’indotto da considerare. Ma quel progetto – per le sue caratteristiche proprie (una “grande opera” collocata a soli 6 km dalla costa) – avrebbe potuto compromettere ben altre attività economiche: per esempio il turismo della costa teatina, il quale – diversamente da quello romagnolo (romagnolo, non ravennate, si badi) – non è un turismo di massa e risulta attrattivo per ragioni che non possono prescindere dalle tipicità del territorio: i trabocchi in mare, l’agriturismo, i borghi storici, ecc. Ora, quello che si sta sostenendo – anche da parte del Presidente del Consiglio Renzi – è che se il referendum del 17 aprile dovesse andare a buon fine si metterebbe in ginocchio l’occupazione dell’intero comparto degli idrocarburi. L’affermazione non è corretta. Il referendum spiegherebbe i propri effetti immediati non già sulle attività di estrazione in corso, ma sulla durata “naturale” delle concessioni attualmente vigenti. Non c’è nulla di teorico in questo discorso ed è sufficiente andare a verificare quale sia la data di scadenza delle concessioni. Se ci si attiene ai dati forniti dal Ministero dello sviluppo economico, in mare sarebbero presenti ben 135 piattaforme (tra produttive e non produttive), corrispondenti a venticinque concessioni ricadenti entro le dodici miglia marine (si tratta, in verità, di dati incompleti, in quanto, solo per fare un esempio, nel Canale di Sicilia non risulta attiva – come vorrebbe, invece, il Ministero – solo la concessione Vega A; in ogni caso, i dati diffusi non tengono conto che la norma sulla durata a tempo indeterminato dei titoli minerari incide anche sui permessi di ricerca e non solo sulle concessioni). Ebbene, soltanto cinque concessioni scadranno tra 5 anni. Tutte le altre scadranno tra 10-20 anni. E questo vuol dire che prima di quelle date non si perderà un solo posto di lavoro: almeno non per effetto del referendum. Anzi, è semmai vero il contrario: se non si vincerà questo referendum, c’è il rischio che in prospettiva si perdano posti di lavoro senza che si riesca a far fronte tempestivamente al problema. Mi spiego.
Il comparto degli idrocarburi è già in crisi. Proprio qualche giorno fa «Il Sole 24 Ore» pubblicava un articolo dedicato alle attività di estrazione del gas nel ravennate. Il titolo del pezzo era il seguente: “A rischio il futuro dell’oil&gas. In sei mesi persi 900 posti di lavoro”. Come si vede, la perdita dei posti di lavoro non può essere attribuita al referendum, non essendosi questo ancora tenuto. Il punto, allora, è il seguente: come ha pensato di porre rimedio il Governo alla crisi occupazionale che investe il settore? In nessun modo. La norma sulla durata a tempo indeterminato delle attività di estrazione degli idrocarburi non è stata varata per far fronte al problema occupazionale, ma solo per fare un favore alle multinazionali del petrolio. Mi pare evidente. Se il Governo avesse avuto a cuore i 900 lavoratori del ravennate, sarebbe intervenuto direttamente sulla questione con misure di altra natura e non già con una norma che, di per sé, non aggiunge e non toglie niente al problema. Quella norma, se non sarà abrogata rapidamente, e se non si indurrà il Governo a riflettere sin da ora intorno al reimpiego futuro dei lavoratori del comparto, finirà per scontentare tutti per il seguente motivo: essa è palesemente illegittima, in quanto una durata a tempo indeterminato delle concessioni viola le regole sulla libera concorrenza. La norma, in altri termini, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con la direttiva 94/22/CE (recepita dall’Italia con d.lgs. 25 novembre 1996, n. 625), che, al fine di realizzare taluni obiettivi, tra i quali il rafforzamento della competitività economica e la garanzia dell’accesso non discriminatorio alle attività di prospezione, di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi e al loro esercizio, secondo modalità che favoriscono una maggiore concorrenza nel settore, prescrive che “la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa è stata concessa” e che solo in via eccezionale (e non in via generale e a tempo indeterminato!) il legislatore statale possa prevedere proroghe della durata dei titoli abilitativi, “se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione”. D’altra parte, il caso della direttiva Bolkestein, e cioè della legittimità delle proroghe delle concessioni balneari (sulla quale la Corte di giustizia si pronuncerà a breve), dovrebbe insegnare qualcosa.
Questo vuol dire che, al netto di una procedura di infrazione che l’Unione europea potrebbe aprire nei confronti dell’Italia, qualora la norma sulla durata delle concessioni arrivasse sul tavolo della Corte costituzionale, questa ne dichiarerebbe quasi certamente l’illegittimità per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. Se ciò accadesse, le concessioni tornerebbero di nuovo a scadere secondo la data originariamente prevista. Proprio come si propone ora con il referendum abrogativo. Ma con una differenza di non poco conto: che in questa evenienza, non conoscendosi ancora né l’ora né il giorno, sarebbe troppo tardi per intervenire e salvare quei lavoratori.
__
Fonte: articolo pubblicato sul sito Prima le Persone www.primalepersone.eu/cms/?q=node/327
Immagine trattata dal documentario "Italian Offshore" https://vimeo.com/156500737

mercoledì 9 marzo 2016

OPACO COME IL PETROLIO

Assemblea pubblica a Giovinazzo, luglio 2014


Domenica 28 febbraio a Bari si è tenuta un’assemblea partecipata per organizzarsi in vista del Referendum del 17 aprile e che ha visto, nella sua conclusione, nascere il “Comitato Pugliese Vota SÌ per fermare le trivelle”.

Martedì 8 marzo apprendiamo da alcuni giornali locali che è nato, il giorno precedente in un’assemblea tenutasi nella sede di Legambiente Puglia, un altro “Comitato Pugliese Vota SÌ per fermare le trivelle”.

Qualche passaggio a molti potrebbe risultare confuso ed è per questo che sentiamo l’esigenza per chiarezza e onestà - politica e intellettuale - di spiegare quanto è accaduto.

Un dato è assolutamente incontrovertibile: il 7 marzo si è tenuta presso la sede di Legambiente Puglia un’assemblea.
Altri dati invece ci sono pochi chiari: perché quest’assemblea sia stata convocata solamente il giorno prima, perché molti soggetti ne siano venuti a conoscenza casualmente, perché non sia stato diffuso un odg e perché non sia stato esplicitato l’intento dell’assemblea.

Per puro caso, infatti, solo nel tardo pomeriggio del 6 marzo, abbiamo appreso della convocazione da parte di Legambiente Puglia di una riunione regionale aperta agli esterni da tenersi il giorno dopo nella loro sede, che verteva sull’organizzazione della campagna referendaria.

Dal momento che il 28 febbraio anche Legambiente era presente all’assemblea di costituzione del comitato referendario pugliese, abbiamo chiesto loro di girare la comunicazione anche nella mailing list del Comitato, per informare più gente possibile dell’appuntamento. Per motivi che ignoriamo, non è stato fatto. 

Il 7 marzo ci siamo presentati all’incontro. Con un po’ di sorpresa, apprendiamo dall’intervento del presidente di Legambiente che si voleva costituire un comitato referendario regionale.

Da subito abbiamo voluto far presente che un comitato referendario regionale già c’era e che per l’appunto era quello nato quel 28 febbraio. Ci è stato risposto in maniera un po’ confusa, che era necessario discutere della costituzione legale di un Comitato Regionale.

Abbiamo ribadito la nostra massima disponibilità ad unire le forze e lavorare in sinergiama anche che le modalità di convocazione dell’assemblea ci risultavano opache e tendenti alla chiusura, che dato lo scarso preavviso e la mancanza dell’odg, non potevamo esprimere una posizione del nostro coordinamento, ed in secondo luogo che ci sembrava davvero molto scorretto non permettere alle realtà presenti a Bari il 28 febbraio di partecipare ed esprimersi sulle proposte organizzative avanzate da Legambiente e gli altri organizzatori della riunione.

La riunione è durata ben 5 ore, data una evidente situazione di stallo.

Anche altri soggetti presenti hanno espresso gli stessi dubbi e assieme abbiamo chiesto di darci un paio di giorni di tempo per poter informare della proposta emersa sia coloro che erano presenti a Bari il 28 febbraio sia coloro che fanno parte delle rispettive realtà che eravamo lì a rappresentare.

Dobbiamo sottolineare che ogni qualvolta ponevamo una sacrosanta questione di trasparenza e democrazia dal basso alla base della nostra posizione di rigidità, venivamo scanzonati o derisi con frasi del calibro: “Con voi bisogna fare come con i bambini”, oppure “A fare troppo i democratici non facciamo più nulla”.

Ciò ha comportato un comprensibile innalzamento della tensione, complice anche la volontà degli organizzatori di ignorare la proposta avanzata da noi e conseguentemente di delegittimare il percorso già intrapreso e il comitato referendario di Foggia che in quelle stesse ore si andava costituendo alla presenza del Coordinamento Nazionale No Triv. 

Se è vero che da parte di alcuni di essi non potevamo aspettarci nulla di meglio, dato il rinomato disprezzo che hanno sempre manifestato verso la democrazia dal basso, la partecipazione e soprattutto le decisioni prese collettivamente in assemblea, vi garantiamo che è stata comunque un’esperienza poco piacevole.

Ad ogni modo, sembrava che tutto si fosse risolto per il meglio: alla fine era stata accolta la nostra proposta di attendere due giorni per poi procedere con un percorso condiviso e unitario. Per poi invece scoprire nella giornata di ieri che Legambiente, Wwf, Comitato No Petrolio Sì Energie Rinnovabili di Monopoli e altre sigle della Capitanata hanno costituito il Comitato Referendario Regionale.

Che dire? Per quanto avvezzi alle bassezze di taluni soggetti, questo colpo di mano ha sconvolto persino noi.

Chi ha avuto modo di conoscerci, sia nel lavoro del Coordinamento NoTriv Terra di Bari, ma anche nei tanti altri ambiti sociali in cui siamo impegnati sa bene il nostro modo di intendere la Politica.
Crediamo che la trasparenza, la democrazia dal basso e l’orizzontalità siano una assoluta necessità per la costruzione di quei Movimenti che poi incidono davvero, imponendo dei rapporti di forza che permettono di vincere le vertenze e le battaglie più difficili.

Con la scusa del “poco tempo” non si può fare ciò che si vuole.
Noi non siamo autoreferenziali e non intendiamo esserlo, ma riteniamo che sia prioritario condividere il più possibile il percorso di lotta per raggiungere gli obiettivi prefissati e decisi insieme, anziché fare appello al politico locale di turno al solo scopo di ottenere un tornaconto elettorale.


Il nostro Coordinamento continuerà a lavorare per la vittoria referendaria, vuole proseguire questo percorso con tutti quelli che assieme a noi vorranno farloNon ci interessa fare mostra di noi nelle tribune televisive o gestire i contributi economici dei consiglieri regionali, che durante l'assemblea del 7 marzo ci è parsa invece essere massima aspirazione di qualcuno.

Sicuramente non siamo perfetti ma non accettiamo che qualcuno salga sul pulpito a muovere critiche sulla nostra trasparenza e correttezzaIl nostro percorso ci incoraggia a continuare perché sentiamo di NON essere soli.


Bari, 9 marzo 2016
Coordinamento NoTriv Terra di Bari





foto di Felisiano Bruni - Rumore Collettivo
 Siamo promotori del Copyleft, 
quindi puoi usare le immagini citando, però, la fonte e l'autore