sabato 27 agosto 2016

Responsabilità, emergenze, prevenzione e partecipazione

Terremoto: responsabilità, gravi ed evidenti, di chi ha governato negli ultimi anni. Per un immediato cambio di rotta necessarie la pressione e la partecipazione dei cittadini.


Mettere accanto, l'uno all'altro, i termini "terremoto" ed "emergenza" o "fatalità" è un oltraggio alla memoria delle 4.828 vittime che si sono registrate negli ultimi cinquant'anni in Italia a seguito di eventi sismici.
Se è vero, infatti, che non è possibile prevedere i terremoti, è altrettanto vero che in un Paese con un rischio sismico tra i più alti nel mondo e con 3.690 terremoti di magnitudo superiore a 2.5 negli ultimi 5 anni, il minimo che si possa fare è prevenire: il che significa, come va ripetendo da anni l'inascoltato Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, "rispettare le norme antisismiche nella costruzione di nuovi edifici e cercare di mettere in sicurezza gli edifici già esistenti, soprattutto quelli di edilizia pubblica".
Mentre in Giappone e Stati Uniti si sono ottenuti importanti risultati nel minimizzare gli effetti distruttivi di eventi sismici di magnitudo ben superiore a quella del sisma di Amatrice ed Arquata, in Italia invece i terremoti si trasformano quasi sempre in tragiche emergenze ed in eventi luttuosi.
Il prezzo che si paga al piegarsi alla logica dell'emergenza ha anche altre conseguenze nefaste: ragionando in termini strettamente ragionieristici, per ricostruire si spende molto più che prevenire. Si stima, infatti, che le varie ricostruzioni post-terremoti degli ultimi cinquant'anni (dal Belice in poi) siano costate alla collettività qualcosa come 150 miliardi di euro mentre per mettere in sicurezza gli edifici già esistenti ne occorrerebbero 80.
Ricostruire in situazioni di "emergenza" determina inoltre incapacità di controllo della spesa (lo ha certificato la Corte dei Conti), pessimi risultati dal punto di vista tecnico-costruttivo (si pensi ai numerosi casi di crollo dei balconi degli alloggi antisismici a L'Aquila); favorisce il diffondersi di fenomeni corruttivi e mafiosi-camorristici-ndrangetisti (vedi Irpinia e, di nuovo, L'Aquila), l'annientamento di intere comunità e delle relazioni sociali; determina, infine, lo stravolgimento delle regole dello Stato di diritto (limitazione delle libertà personali, espropriazione dei poteri degli enti territoriali, ecc.).
La logica emergenziale alimenta il vortice dell'irresponsabilità collettiva ed è per questa ragione che deve essere denunciata all'opinione pubblica che ha a sua volta il diritto-dovere di reagire.
La responsabilità delle devastazioni e del pesante tributo pagato in termini di vite umane per eventi sismici (quasi 5.000 vittime negli ultimi 50 anni) e per disastri ambientali (si pensi, ad esempio, ai recenti fatti di Genova o all'alluvione di Sarno con i suoi 159 morti o a quella piemontese del 1994 che causò 70 vittime) va ascritta per intero a coloro che, investiti di responsabilità di governo, hanno brillato per inerzia, spingendosi fino a promuovere l'utilizzo predatorio e spregiudicato del territorio.
Come dimenticare, in tempi recenti, l'edificazione e l'infrastrutturazione, con tanto di pareri favorevoli ed autorizzazioni, di parte della città de L'Aquila su una faglia attiva (Pettino), e la seguente ricostruzione nel medesimo sito ad alto rischio sismico? Come non ricordare che il decantato "Sblocca Italia" è la più recente e forse la più tristemente nota tra le modalità con cui la bramosia di devastazione dei territori si è tradotta sul piano legislativo?
Mancata prevenzione antisismica, edificazione selvaggia, trivellazioni, realizzazione di infrastrutture energetiche inutili, impattanti e dispendiose, sono figli della stessa cultura predatoria, della medesima matrice ideologica i cui pilastri portanti sono lo sfruttamento dissennato del territorio, la mancanza di rispetto del diritto alla vita ed il saccheggio dei beni comuni.
Questa nuova tragedia nazionale non è frutto della casualità ma ha mandanti ed esecutori che meritano di essere sfiduciati dai cittadini e sanzionati, quanto meno sotto il profilo politico.
In merito ad altri profili di responsabilità sarà la magistratura a pronunciarsi. La Procura di Rieti, che ipotizza il reato di disastro colposo, è già al lavoro. Confidiamo che giustizia sia fatta e che non abbiano a ripetersi i fatti de L'Aquila (assoluzione in Cassazione dei componenti della Commissione Grandi Rischi e condanna delle famiglie delle vittime al pagamento delle spese processuali).
Dopo questa nuova strage di innocenti, nessuno può arrogarsi il diritto di tergiversare: occorre subito una rapida inversione di rotta nelle politiche di governo del territorio e nella pianificazione delle opere, anche di quelle ritenute fino ad oggi strategiche e di interesse nazionale.
Nulla è più strategico e nulla risponde in maggior misura all'interesse nazionale che la tutela della sicurezza e della vita dei cittadini!
Governo e Regioni si facciano promotori SUBITO di un Piano Straordinario di messa in sicurezza dell'intero territorio italiano -dal punto di vista sismico, idrogeologico e paesaggistico-, sul modello dell'Unica Grande Opera (UGO) di Salvatore Settis e Tomaso Montanari, e del patrimonio edilizio privato e pubblico, reperendo risorse anche in ambito U.E., stimate in 4 miliardi di euro/anno per 20 anni, che devono poter essere impegnate anche in deroga ai limiti posti dal Patto di Stabilità e che, oltre tutto, genererebbero nuove attività d'impresa, occupazione qualificata e gettito fiscale.
Con riferimento alla prevenzione degli effetti distruttivi degli eventi sismici, sul modello di quanto fatto in Toscana con la legge regionale n. 56 del 1997, che per prima ha introdotto finanziamenti pubblici per i privati, è necessario ed urgente procedere alla realizzazione di indagini di microzonizzazione sismica in tutto il territorio nazionale (i fondi assegnati ai Comuni sono stati utilizzati tutti e non si sono rivelati sufficienti), di verifiche sismiche su edifici pubblici, di una rete sismica e geodetica; promuovere una campagna di capillare informazione diretta alla popolazione e nelle scuole; mettere a disposizione delle famiglie in incentivi e finanziamenti tali da incoraggiarle a verificare sotto il profilo sismico e, se del caso, ad adeguare le abitazioni di proprietà; semplificare l'attuale meccanismo per l'erogazione dei contributi già stanziati e disponibili.
Tali nuovi finanziamenti pubblici sono da intendere come aggiuntivi, cumulabili e non sostitutivi rispetto alla misura della detraibilità fiscale prevista nella misura del 65%, per spese di adeguamento sismico sostenute da soggetti Irpef e condomini, che andrebbe anch'essa resa strutturale.
Sempre nell'ottica della prevenzione e della corretta pianificazione delle opere pubbliche, dovrebbero essere introdotti più severi requisiti nella valutazione di compatibilità ambientale, nella selezione delle aree in cui è possibile realizzare determinate opere ed attività, e più elevati standard qualitativi nella progettazione di autostrade, dighe, acquedotti, gasdotti, ecc..
Con riferimento alle opere ed alle attività "petrolifere", la soppressione del Piano delle Aree, prevista nella Legge di Stabilità 2016 e fortemente voluta dal Governo, va nella direzione opposta. Lo strumento deve essere assolutamente recuperato in modo che si sappia una buona volta cosa può essere costruito e cosa no ed in quali aree del Paese.
Il sistema Paese reclama un salto di qualità e di razionalità per porre rimedio agli effetti delle scelte scellerate del passato e per prevenirne di nuove.
Il pensiero corre alla diga idroelettrica di Rio Fucino, sul lago di Campotosto, costruita sulla faglia dei Monti della Laga, in provincia di Teramo, il cui cedimento spazzerebbe via interi centri abitati a valle; alle 8 esplosioni di metanodotti verificatesi in Italia dal 2004 ad oggi (Montecilfone, Tarsia, Tresana, Sciara, Sant'Alberto, Pineto, Roncade ed Alta Val Marecchia); alle campagne di trivellazioni autorizzate sia a terra in zone ad alto rischio sismico (Emilia, Basilicata) sia in mare, in aree soggette al fenomeno della subsidenza (Ravennate e Veneto); alle attività di reiniezione a forte pressione dei fluidi di scarto della lavorazione del petrolio, a circa 4 km di profondità, che si vorrebbero effettuare in Basilicata all'interno delle rocce carbonatiche deformate della piattaforma appula; infine, al TAP, al " grande tubo" lungo quasi 700 chilometri, che, nonostante l'opposizione di alcune Regioni, attraverserà l'Italia dalla Puglia fino all'Emilia Romagna, transitando lungo la dorsale appenninica ed attraversando le località più colpite dal terremoto del 1997 (Marche ed Umbria), dal sisma del 6 aprile 2009, in provincia de L'Aquila, e, infine, dal nuovo terremoto di magnitudo 6.2 che ha raso al suolo Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto ed altri borghi minori.
In ultimo ma non per ultima, la riforma del Titolo V della Costituzione, con tutto ciò che ne conseguirà in termini di mancata interlocuzione e collaborazione tra Stato e Regioni in materia di approvazione di opere ed infrastrutture energetiche, con conseguente accentramento delle scelte nelle mani dello Stato che potrà disporre a proprio piacimento dei territori e delle loro fragilità ambientali, così già si è verificato con il TAP.
Centralizzare non paga neppure sotto il profilo della gestione dei contributi previsti per la messa in sicurezza degli edifici privati. Nel 2013, ad esempio, delle 11.000 domande presentate ai Comuni, dopo un lungo passaggio di carte dai Comuni alle Regioni e da queste alla Protezione Civile, ne sono state accolte appena 1.849, per un contributo medio a pratica di circa 20 mila euro.
ll capitolo delle modifiche costituzionali si inserisce in un disegno complessivo di riforme della Carta e strutturali che riduce la possibilità per i cittadini di compiere scelte democratiche e di partecipare alle decisioni che hanno una ricaduta diretta e inequivocabile sulla propria salute, sulla sicurezza, sul benessere delle famiglie e della comunità.
E’ il momento che i cittadini si riapproprino di questo diritto-dovere e che si prenda atto della gravità della situazione del nostro Paese che, ancora una volta, si riscopre fragile da un punto di vista strutturale, ma ricco di partecipazione civica.
E' compito di chi governa i territori, ma anche di noi cittadini nel richiederle e sollecitarle, dar vita a politiche economiche che riducano il distacco tra la difesa del suolo e della salute pubblica (poca) e la solidarietà umana (molta).
Roma, 26 agosto 2016



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venerdì 26 agosto 2016

Clean Sea Adriatic Alliance lancia la campagna "The Adriatic Pledge"


COMUNICATO STAMPA
Clean Sea Adriatic Alliance lancia la campagna "The Adriatic Pledge"



L’organizzazione croata Clean Adriatic Sea Alliance ha lanciato da qualche giorno una nuova campagna online, The Adriatic Pledge: Una promessa per l’Adriatico, invitando i sei paesi che si affacciano sull’Adriatico: Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania, ad implementare un divieto permanente di esplorazione e produzione idrocarburi in tutto il Mare Adriatico.

La petizione The Adriatic Pledge è disponibile sul rinnovato sito cleanadriatic.org, tradotta nelle diverse lingue. Può essere sottoscritta da singoli cittadini, mentre associazioni, organizzazioni e funzionari eletti possono inviare una mail a info@cleanadriatic.org per essere inclusi nella lista dei sostenitori.

"Ci auguriamo che la campagna offra una piattaforma sia per i cittadini che per le organizzazioni provenienti da entrambe le sponde del mare Adriatico per mostrare il proprio sostegno ad un divieto permanente", scrive Sam Evich, fondatore di Clean Sea Adriatic Alliance. "È il culmine di un movimento pubblico in crescita nella regione per lasciare i combustibili fossili sottoterra e per sostenere lo sviluppo delle energie pulite".

Inclusa nella petizione internazionale vi è una richiesta alle nazioni adriatiche per porre subito in atto piani strategici per produrre energia al 100% da fonti rinnovabili.

“Il 2016 è stato l’anno più caldo mai registrato” sostiene Rosalind Innes, membro del Coordinamento Nazionale NoTriv. “Non possiamo più rimandare la transizione verso le energie pulite per proteggere i nostri mari. Sosteniamo con forza The Adriatic Pledge”.

Anche la Società Tedesca per la Conservazione dei Delfini, Gesellschaft zur Rettung der Delphine, aderisce alla campagna.
“Questa è l’unica possibilità per i paesi che si affacciano sul Mare Adriatico di assumere un ruolo guida nella promozione delle energie rinnovabili” afferma Ulrike Kirsch, project manager del progetto tedesco-croato per salvare gli ultimi delfini dell’Adriatico.

“The Adriatic Pledge interconnette le lotte per una crescita economica pulita e rispettosa con quelle per i diritti delle popolazioni” ha dichiarato Gino Cirillo del Coordinamento No Triv Terra di Bari.

L’energia prodotta tramite la tecnologia solare, in particolare, sta dimostrando la sua competitività, e considerando che i paesi dell’Adriatico hanno in media più giorni di luce solare all’anno rispetto ad altre parti dell’Europa, questa si conferma una soluzione ideale per la crescita delle economie locali, preservando allo stesso tempo le comunità costiere.

L'urgenza di mobilitare le popolazioni in risposta al cambiamento climatico ha spinto molti esperti a immaginare nuove opzioni per produrre energia pulita. Uno dei più completi piani d'azione per produrre energia pulita è quello recentemente proposto da Mark Jacobson con The Solutions Project che include mix di fonti rinnovabili vitali per molti paesi in tutto il mondo, tra cui i sei paesi a cui facciamo appello: Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania.

Per aderire alla campagna:

Per approfondire:

Campagna 100% Possible https://100.org/


venerdì 5 agosto 2016

26 agosto, Molfetta: Prima proiezione pubblica del documentario "Mare Nostro"



Venerdì 26 agosto, Molfetta, Fabbrica di San Domenico, ore 21:00

Proiezione pubblica del film documentario “Mare Nostro“, incontro con l’autore e i protagonisti del film.


2016 – colore – 56′
Regia: Andrea Gadaleta Caldarola
Fotografia: Andrea Gadaleta Caldarola
Montaggio: Andrea Gadaleta Caldarola
Interpreti: Salvatore Savelmini, Antonio Rana, Vitoantonio Tedesco, Ignazio Salvemini, l’equipaggio di Nicolangela
Musiche: Sviridov Georgy (compositore), “Sacred Love” (titolo brano), Latvian Radio Choir, Klava, Tolstoy (esecutori), Naxos (casa discografica)
Produzione: Andrea Gadaleta Caldarola
Co-produzione: Rosanna Rizzi
SINOSSI
Molfetta, una città del sud Italia che si affaccia sull’Adriatico. Qui il mare non è solo sfondo di paesaggi pittoreschi da cartolina. Pesca e commercio marittimo hanno plasmato nei secoli l’ecosistema sociale ed economico della città. Attraverso le voci di alcuni pescatori, Mare Nostro intreccia e ricompone memorie e frammenti di un luogo in cui i confini tra cronaca e antichi rituali, fatti storici e ricordi personali appaiono sfocati.
NOTE DI REGIA
Mare Nostro, l’ultimo film di Andrea Gadaleta Caldarola, racconta una storia di mare. Il regista torna nella sua città d’origine e ritrae una città sospesa fra cambiamento e continuità, bellezza e rovina. Le architetture della città, le voci dei pescatori, le antiche processioni, le urla dei mercati raccontano di un rapporto col mare antico e profondo sul quale tutta una comunità ha costruito la propria identità. I racconti dei protagonisti, pescatori di Molfetta, riportano alla memoria storie private e fatti storici, frammenti e ricordi che si ricompongono in una storia più grande e complessa.

giovedì 21 aprile 2016

Una "sconfitta" che facciamo nostra con orgoglio

Comunicato Stampa del Coordinamento NoTriv Terra di Bari sul risultato referendario del 17 aprile 2016

Manifestazione #18S_NOTRIV, del 18 settembre 2015, in concomitanza con il vertice dei Presidenti delle Regioni del Sud presso la Fiera del Levante di Bari.

Partiamo dai concetti fondamentali: si è trattato di una sconfitta? Pensiamo ovviamente di no. Portare più di 15 milioni di persone al voto in un contesto di disaffezione alla Politica e di scoramento diffuso è un risultato per noi assolutamente incoraggiante.

Ed è un risultato che sentiamo nostro e rivendichiamo con orgoglio. E con “nostro” intendiamo dei comitati territoriali sparsi sul territorio che si sono riuniti nel Coordinamento Nazionale No Triv.

Tanto si è detto sulla genesi di questo referendum, a partire dal fatto che sia il frutto esclusivo di uno scontro tra regioni e governo, su basi finanche personalistiche. È un’analisi superficiale che non risponde al vero. Come comitati abbiamo fatto una scelta, consapevoli di tutti i rischi che avrebbe comportato. Sapevamo di non avere il tempo necessario per una raccolta firme che portasse ad un iter referendario “canonico” ed abbiamo concentrato le nostre energie su un obiettivo che individuavamo più raggiungibile.

Chi ha fatto con noi questo percorso dal principio sa bene quanto sia stato faticoso premere affinché 10 Consigli Regionali deliberassero per quel referendum. È stato un lavoro duro, fatto di assemblee in piazza, di manifestazioni sotto un sole cocente, di iniziative sparse in luoghi che non riusciamo nemmeno a ricordare.

Pensiamo sia giusto e sacrosanto che ci venga riconosciuto quel lavoro, al di là delle partite che le istituzioni ed i politici locali hanno voluto giocarci sopra.

Una volta ottenuto il primo obiettivo, davanti a noi si è presentata una battaglia ancora più grande.
Raggiungere il quorum era una sfida che solo chi ha l’abitudine di lanciare il cuore oltre l’ostacolo poteva cogliere.

Avevamo tutto e tutti contro: un governo amico delle lobby petrolifere, come hanno testimoniato le intercettazioni del ministro Guidi, che ha provato in tutte le maniere a boicottare il referendum, prima non accorpandolo alle amministrative e poi convocandolo nella prima data utile, in modo che non potessimo organizzare una campagna informativa adeguata; la maggior parte dei media nazionali che ha concesso pochissimo spazio alle ragioni del “sì”, arrivando a diffondere informazioni falsissime poche ore prima del giorno delle votazioni; il folle fuoco amico di chi ha prodotto un altro quesito referendario sulle trivellazioni petrolifere (peraltro secondo noi palesemente anticostituzionale) a ridosso del 17 aprile. 


La campagna referendaria è stata portata avanti da diversi soggetti, ma le letture post-referendum sul voto e sul percorso vedono come unico soggetto sul bancone degli imputati il movimento notriv.


E quindi eccoci qui, il 18 aprile “la musica è finita, gli amici se ne vanno”. Noi no. Ci intestiamo con orgoglio il risultato del 31,18%, contenti di aver portato ad esprimersi in maniera evidente e franca più persone di quante abbiano votato il principale partito di governo. E da qui troviamo nuova linfa per rilanciare il nostro lavoro.

Come comitati ci riconvocheremo nei prossimi mesi in un’assemblea nazionale e successivamente altre regionali, per pianificare assieme nuove strategie e percorsi comuni.

Il Coordinamento NoTriv Terra di Bari concentrerà maggiormente i propri sforzi contro il progetto Tempa Rossa, che vuole sacrificare ancora di più Taranto sull’altare dei profitti di pochi e sul quale Emiliano non può sperare di fare orecchie da mercante, e per la richiesta alle autorità competenti di un controllo delle acque dell’invaso lucano del Pertusillo che rifornisce l’Acquedotto Pugliese e della pubblicazione dei risultati delle analisi.

Le nostre modalità saranno quelle che ci hanno sempre contraddistinto: trasparenza, apertura ed organizzazione dal basso. Perché questa è per noi Politica, con la “P” maiuscola.

Ciaone.




foto di Felisiano Bruni - Rumore Collettivo
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lunedì 14 marzo 2016

Perché votare sì al referendum interessa anche i lavoratori del comparto degli idrocarburi

di Enzo Di Salvatore 
Agostino c – Siamo a largo di Ravenna, a 18km dalla costa. Gestita da Eni la piattaforma è collegata a 12 pozzi che estraggono gas 

I sostenitori del “no” al referendum abrogativo sulle estrazioni di idrocarburi in mare utilizzano due argomenti principali: il fabbisogno energetico nazionale e i posti di lavoro. Entrambi gli argomenti, però, costituiscono un falso problema. Le multinazionali che chiedono un permesso per cercare o una concessione per estrarre idrocarburi non lo fanno per corrispondere alle esigenze del fabbisogno energetico nazionale né per creare posti di lavoro. Lo fanno solo per perseguire i propri interessi economici; e questo lo capisce anche un bambino. Non c’è nessun collegamento diretto tra le attività estrattive e il fabbisogno energetico nazionale. Dopo la scoperta del giacimento, le risorse presenti nel sottosuolo appartengono allo Stato, e cioè a tutti noi. A seguito del rilascio della concessione, però, quello che viene estratto diviene di “proprietà” di chi lo estrae. La società petrolifera, in questo caso, è tenuta a versare alle casse dello Stato solo il 10% del valore degli idrocarburi estratti se l’attività riguarda la terraferma e solo il 7% del petrolio e il 10% del gas estratti se l’attività riguarda il mare. Dunque: il 90-93% degli idrocarburi estratti può essere dalla società petrolifera portato via e venduto altrove oppure può essere rivenduto direttamente allo Stato italiano.
Veniamo alla questione “occupazione”. Oggi, la realizzazione di progetti petroliferi non crea di per sé posti di lavoro significativi. Basti pensare al progetto “Ombrina mare”, il cui procedimento per il rilascio della concessione è stato chiuso solo di recente (ma la norma sulle «durata di vita utile del giacimento», sottoposta ora a referendum, “congela” di fatto il relativo permesso di ricerca). Qualora fosse stato realizzato, il progetto avrebbe dato lavoro solo a ventiquattro persone. Certo, ci sarebbe stato comunque l’indotto da considerare. Ma quel progetto – per le sue caratteristiche proprie (una “grande opera” collocata a soli 6 km dalla costa) – avrebbe potuto compromettere ben altre attività economiche: per esempio il turismo della costa teatina, il quale – diversamente da quello romagnolo (romagnolo, non ravennate, si badi) – non è un turismo di massa e risulta attrattivo per ragioni che non possono prescindere dalle tipicità del territorio: i trabocchi in mare, l’agriturismo, i borghi storici, ecc. Ora, quello che si sta sostenendo – anche da parte del Presidente del Consiglio Renzi – è che se il referendum del 17 aprile dovesse andare a buon fine si metterebbe in ginocchio l’occupazione dell’intero comparto degli idrocarburi. L’affermazione non è corretta. Il referendum spiegherebbe i propri effetti immediati non già sulle attività di estrazione in corso, ma sulla durata “naturale” delle concessioni attualmente vigenti. Non c’è nulla di teorico in questo discorso ed è sufficiente andare a verificare quale sia la data di scadenza delle concessioni. Se ci si attiene ai dati forniti dal Ministero dello sviluppo economico, in mare sarebbero presenti ben 135 piattaforme (tra produttive e non produttive), corrispondenti a venticinque concessioni ricadenti entro le dodici miglia marine (si tratta, in verità, di dati incompleti, in quanto, solo per fare un esempio, nel Canale di Sicilia non risulta attiva – come vorrebbe, invece, il Ministero – solo la concessione Vega A; in ogni caso, i dati diffusi non tengono conto che la norma sulla durata a tempo indeterminato dei titoli minerari incide anche sui permessi di ricerca e non solo sulle concessioni). Ebbene, soltanto cinque concessioni scadranno tra 5 anni. Tutte le altre scadranno tra 10-20 anni. E questo vuol dire che prima di quelle date non si perderà un solo posto di lavoro: almeno non per effetto del referendum. Anzi, è semmai vero il contrario: se non si vincerà questo referendum, c’è il rischio che in prospettiva si perdano posti di lavoro senza che si riesca a far fronte tempestivamente al problema. Mi spiego.
Il comparto degli idrocarburi è già in crisi. Proprio qualche giorno fa «Il Sole 24 Ore» pubblicava un articolo dedicato alle attività di estrazione del gas nel ravennate. Il titolo del pezzo era il seguente: “A rischio il futuro dell’oil&gas. In sei mesi persi 900 posti di lavoro”. Come si vede, la perdita dei posti di lavoro non può essere attribuita al referendum, non essendosi questo ancora tenuto. Il punto, allora, è il seguente: come ha pensato di porre rimedio il Governo alla crisi occupazionale che investe il settore? In nessun modo. La norma sulla durata a tempo indeterminato delle attività di estrazione degli idrocarburi non è stata varata per far fronte al problema occupazionale, ma solo per fare un favore alle multinazionali del petrolio. Mi pare evidente. Se il Governo avesse avuto a cuore i 900 lavoratori del ravennate, sarebbe intervenuto direttamente sulla questione con misure di altra natura e non già con una norma che, di per sé, non aggiunge e non toglie niente al problema. Quella norma, se non sarà abrogata rapidamente, e se non si indurrà il Governo a riflettere sin da ora intorno al reimpiego futuro dei lavoratori del comparto, finirà per scontentare tutti per il seguente motivo: essa è palesemente illegittima, in quanto una durata a tempo indeterminato delle concessioni viola le regole sulla libera concorrenza. La norma, in altri termini, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con la direttiva 94/22/CE (recepita dall’Italia con d.lgs. 25 novembre 1996, n. 625), che, al fine di realizzare taluni obiettivi, tra i quali il rafforzamento della competitività economica e la garanzia dell’accesso non discriminatorio alle attività di prospezione, di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi e al loro esercizio, secondo modalità che favoriscono una maggiore concorrenza nel settore, prescrive che “la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa è stata concessa” e che solo in via eccezionale (e non in via generale e a tempo indeterminato!) il legislatore statale possa prevedere proroghe della durata dei titoli abilitativi, “se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione”. D’altra parte, il caso della direttiva Bolkestein, e cioè della legittimità delle proroghe delle concessioni balneari (sulla quale la Corte di giustizia si pronuncerà a breve), dovrebbe insegnare qualcosa.
Questo vuol dire che, al netto di una procedura di infrazione che l’Unione europea potrebbe aprire nei confronti dell’Italia, qualora la norma sulla durata delle concessioni arrivasse sul tavolo della Corte costituzionale, questa ne dichiarerebbe quasi certamente l’illegittimità per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. Se ciò accadesse, le concessioni tornerebbero di nuovo a scadere secondo la data originariamente prevista. Proprio come si propone ora con il referendum abrogativo. Ma con una differenza di non poco conto: che in questa evenienza, non conoscendosi ancora né l’ora né il giorno, sarebbe troppo tardi per intervenire e salvare quei lavoratori.
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Fonte: articolo pubblicato sul sito Prima le Persone www.primalepersone.eu/cms/?q=node/327
Immagine trattata dal documentario "Italian Offshore" https://vimeo.com/156500737

mercoledì 9 marzo 2016

OPACO COME IL PETROLIO

Assemblea pubblica a Giovinazzo, luglio 2014


Domenica 28 febbraio a Bari si è tenuta un’assemblea partecipata per organizzarsi in vista del Referendum del 17 aprile e che ha visto, nella sua conclusione, nascere il “Comitato Pugliese Vota SÌ per fermare le trivelle”.

Martedì 8 marzo apprendiamo da alcuni giornali locali che è nato, il giorno precedente in un’assemblea tenutasi nella sede di Legambiente Puglia, un altro “Comitato Pugliese Vota SÌ per fermare le trivelle”.

Qualche passaggio a molti potrebbe risultare confuso ed è per questo che sentiamo l’esigenza per chiarezza e onestà - politica e intellettuale - di spiegare quanto è accaduto.

Un dato è assolutamente incontrovertibile: il 7 marzo si è tenuta presso la sede di Legambiente Puglia un’assemblea.
Altri dati invece ci sono pochi chiari: perché quest’assemblea sia stata convocata solamente il giorno prima, perché molti soggetti ne siano venuti a conoscenza casualmente, perché non sia stato diffuso un odg e perché non sia stato esplicitato l’intento dell’assemblea.

Per puro caso, infatti, solo nel tardo pomeriggio del 6 marzo, abbiamo appreso della convocazione da parte di Legambiente Puglia di una riunione regionale aperta agli esterni da tenersi il giorno dopo nella loro sede, che verteva sull’organizzazione della campagna referendaria.

Dal momento che il 28 febbraio anche Legambiente era presente all’assemblea di costituzione del comitato referendario pugliese, abbiamo chiesto loro di girare la comunicazione anche nella mailing list del Comitato, per informare più gente possibile dell’appuntamento. Per motivi che ignoriamo, non è stato fatto. 

Il 7 marzo ci siamo presentati all’incontro. Con un po’ di sorpresa, apprendiamo dall’intervento del presidente di Legambiente che si voleva costituire un comitato referendario regionale.

Da subito abbiamo voluto far presente che un comitato referendario regionale già c’era e che per l’appunto era quello nato quel 28 febbraio. Ci è stato risposto in maniera un po’ confusa, che era necessario discutere della costituzione legale di un Comitato Regionale.

Abbiamo ribadito la nostra massima disponibilità ad unire le forze e lavorare in sinergiama anche che le modalità di convocazione dell’assemblea ci risultavano opache e tendenti alla chiusura, che dato lo scarso preavviso e la mancanza dell’odg, non potevamo esprimere una posizione del nostro coordinamento, ed in secondo luogo che ci sembrava davvero molto scorretto non permettere alle realtà presenti a Bari il 28 febbraio di partecipare ed esprimersi sulle proposte organizzative avanzate da Legambiente e gli altri organizzatori della riunione.

La riunione è durata ben 5 ore, data una evidente situazione di stallo.

Anche altri soggetti presenti hanno espresso gli stessi dubbi e assieme abbiamo chiesto di darci un paio di giorni di tempo per poter informare della proposta emersa sia coloro che erano presenti a Bari il 28 febbraio sia coloro che fanno parte delle rispettive realtà che eravamo lì a rappresentare.

Dobbiamo sottolineare che ogni qualvolta ponevamo una sacrosanta questione di trasparenza e democrazia dal basso alla base della nostra posizione di rigidità, venivamo scanzonati o derisi con frasi del calibro: “Con voi bisogna fare come con i bambini”, oppure “A fare troppo i democratici non facciamo più nulla”.

Ciò ha comportato un comprensibile innalzamento della tensione, complice anche la volontà degli organizzatori di ignorare la proposta avanzata da noi e conseguentemente di delegittimare il percorso già intrapreso e il comitato referendario di Foggia che in quelle stesse ore si andava costituendo alla presenza del Coordinamento Nazionale No Triv. 

Se è vero che da parte di alcuni di essi non potevamo aspettarci nulla di meglio, dato il rinomato disprezzo che hanno sempre manifestato verso la democrazia dal basso, la partecipazione e soprattutto le decisioni prese collettivamente in assemblea, vi garantiamo che è stata comunque un’esperienza poco piacevole.

Ad ogni modo, sembrava che tutto si fosse risolto per il meglio: alla fine era stata accolta la nostra proposta di attendere due giorni per poi procedere con un percorso condiviso e unitario. Per poi invece scoprire nella giornata di ieri che Legambiente, Wwf, Comitato No Petrolio Sì Energie Rinnovabili di Monopoli e altre sigle della Capitanata hanno costituito il Comitato Referendario Regionale.

Che dire? Per quanto avvezzi alle bassezze di taluni soggetti, questo colpo di mano ha sconvolto persino noi.

Chi ha avuto modo di conoscerci, sia nel lavoro del Coordinamento NoTriv Terra di Bari, ma anche nei tanti altri ambiti sociali in cui siamo impegnati sa bene il nostro modo di intendere la Politica.
Crediamo che la trasparenza, la democrazia dal basso e l’orizzontalità siano una assoluta necessità per la costruzione di quei Movimenti che poi incidono davvero, imponendo dei rapporti di forza che permettono di vincere le vertenze e le battaglie più difficili.

Con la scusa del “poco tempo” non si può fare ciò che si vuole.
Noi non siamo autoreferenziali e non intendiamo esserlo, ma riteniamo che sia prioritario condividere il più possibile il percorso di lotta per raggiungere gli obiettivi prefissati e decisi insieme, anziché fare appello al politico locale di turno al solo scopo di ottenere un tornaconto elettorale.


Il nostro Coordinamento continuerà a lavorare per la vittoria referendaria, vuole proseguire questo percorso con tutti quelli che assieme a noi vorranno farloNon ci interessa fare mostra di noi nelle tribune televisive o gestire i contributi economici dei consiglieri regionali, che durante l'assemblea del 7 marzo ci è parsa invece essere massima aspirazione di qualcuno.

Sicuramente non siamo perfetti ma non accettiamo che qualcuno salga sul pulpito a muovere critiche sulla nostra trasparenza e correttezzaIl nostro percorso ci incoraggia a continuare perché sentiamo di NON essere soli.


Bari, 9 marzo 2016
Coordinamento NoTriv Terra di Bari





foto di Felisiano Bruni - Rumore Collettivo
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martedì 23 febbraio 2016

PERCHÉ VOTARE “SÌ” AL REFERENDUM NOTRIV DEL 17 APRILE 2016


Alcuni punti per spiegare perché votare "sì" al referendum contro le trivelle che verrà celebrato il 17 aprile 2016





PERCHÉ VOTARE “SÌ” AL REFERENDUM NO TRIV DEL 17 APRILE 2016


1) CON I QUESITI REFERENDARI ABBIAMO GIÀ OTTENUTO RISULTATI IMPORTANTI. ADESSO FACCIAMO UN ALTRO PASSO IN AVANTI!

L’esecutivo del Governo Renzi per mesi ha portato avanti una strategia per impedire che si giungesse a questo importante appuntamento referendario. Determinato a scongiurare la possibilità che i cittadini potessero esprimersi sulle scelte politiche in materia energetica, mettendole in discussione, ha utilizzato qualunque mezzo: lecito e non, amministrativo e di mera propaganda. 

In quest’ottica vanno letti:

  n  il ricorso alla legge di Stabilità del 2016 per eludere principi e prassi decisorie del cosiddetto “Sblocca Italia”: scompaiono “per magia”, grazie ad un semplice emendamento, i principi di «strategicità, indifferibilità, urgenza, pubblica utilità», ovvero l’anima stessa del decreto legge convertito nella Legge n. 164/2014;

  n  la titolarità all’esproprio ancor prima dell’esito delle attività di prospezione e ricerca, così come la facoltà di assoggettare quote considerevoli di territorio per costruire infrastrutture funzionali agli impianti e alle attività di trasformazione e trasporto degli idrocarburi al di fuori delle aree di concessione;

  n  la Conferenza dei Servizi che viene di fatto svuotata di ogni potere. Alle Regioni e agli Enti Locali viene negata la possibilità di raggiungere un’intesa “forte” con il Governo che, in caso di situazioni di disaccordo, può decidere senza ulteriore trattativa di ogni istanza di ricerca, permesso di estrazione o messa in opera di infrastrutture;

  n  la cancellazione del Piano delle Aree, che determina le zone in cui le compagnie petrolifere possono avanzare richieste o meno, lasciando alle multinazionali la facoltà non solo di continuare ad avanzare richieste di permessi e concessioni in modo selvaggio e senza criteri condivisi da Enti locali e territori, ma addirittura concedendo loro la facoltà di avvalersi di un doppio regime legislativo per l’ottenimento dei titoli.

Attualmente dei sei quesiti referendari, inizialmente presentati, tutti quanti ammessi nel novembre del 2015 dalla Corte di Cassazione, n’è rimasto soltanto uno. L’unico sul quale la Corte Costituzionale, proprio a seguito degli emendamenti alla legge di Stabilità che ricalcano tre dei quesiti proposti, ha dovuto e potuto esprimersi in maniera favorevole.
Ne rimangono, però, elusi altri due che sono stati impugnati per “conflitto di attribuzione” da sei delle dieci Regioni che avevano depositato i quesiti nel settembre 2015 e sui quali si attende il provvedimento di ammissibilità il prossimo 9 marzo.

2) LE CONDIZIONI PER DARE UNA SPINTA CONTRO IL FOSSILE SONO FAVOREVOLI

Ci sono persone chi vivono e lavorano a ridosso di centri oli, raffinerie, hub portuali, pozzi petroliferi, centri e/o pozzi di stoccaggio di petrolio e gas. Ci sono persone che vivono avendo sotto i piedi oleodotti e gasdotti. Ci sono persone che bevono e coltivano la terra con acque provenienti da falde inquinate da centinaia di sostanze chimiche, metalli pesanti e idrocarburi.

Tutti coloro che ormai da anni avvertono sulla propria pelle il peso del condizionamento delle scelte economiche imposte dall’alto e tutti coloro - i lavoratori del settore della pesca e turistico/alberghiero - che potrebbero subirlo, oggi non si stanno ponendo il dubbio SE appoggiare o meno il referendum, ma piuttosto COME continuare ad accumulare forza sociale e politica per voltare pagina, per chiudere con leucemie, tumori, avvelenamento di acqua, aria, suolo e cibo, per andare finalmente oltre il modello energetico fondato sulle fonti fossili.

Negli ultimi mesi, la combinazione tra la campagna planetaria di pressione esercita dal basso nei confronti dei lavori della Conferenza Internazionale sul Clima a Parigi (COP 21) e la sensibilizzazione avuta con la lettera enciclica di Papa Francesco “Laudato sì” ha fatto da detonatore alle lotte territoriali contro le grandi opere.

Ci troviamo inoltre in un contesto internazionale di una forte accelerazione dell’iniziativa bellica, di repentino cambiamento degli assetti geopolitici ma d’altra parte anche di costante tendenza al ribasso storico del costo unitario di produzione del barile.

3) IL VOTO DEL 17 APRILE FAVORISCE UNA GRANDE COALIZIONE SOCIALE PER ATTUARE UNA TRANSIZIONE ENERGETICA VERSO LE RINNOVABILI PULITE

Il voto del 17 Aprile è primariamente, a tutti gli effetti, un voto politico.

Al di là della specificità del quesito, residuo di trabocchetti e scossoni, il referendum è l’UNICO STRUMENTO di cui i movimenti che lottano da anni per i beni comuni, per l’affermazione e conquista di maggiori diritti e per l’autodeterminazione dei territori possono al momento disporre per esprimersi in merito alla Strategia Energetica Nazionale che, da Monti a Renzi, resta l’emblema dell’offesa ai territori, alle loro prerogative, alla stessa Costituzione Italiana.

Lo sanno bene tutti i comitati e le associazioni che lottano contro le piattaforme in mare, la Tap, le centinaia di chilometri di tubi delle reti di gas su faglie sismiche, le centrali e i pozzi di stoccaggio che provocano sismicità indotta. Lo sanno le reti per l’opzione Combustione Rifiuti Zero. Lo sanno bene anche i produttori ortofrutticoli e gli allevatori.
Alle centinaia di associazioni a carattere nazionale si sono aggiunti i comitati NoTav della Val di Susa, il Forum Nazionale per l’Acqua Pubblica, la Confederazione Cobas, la Fiom e non di è certo in virtù di una squallida operazione di sommatoria aritmetica delle piccole convenienze locali.

Chi conosce gli equilibri sociali, politici, culturali ed economici e gestisce - tra l’altro senza mandato elettorale! -le sorti di circa 60 milioni di italiani sa bene che il referendum - questo referendum! - rappresenta una porta stretta attraverso cui solo uno potrà passare: o vinceranno la furbizia, il gioco sporco che il governo Renzi conduce con estrema arroganza in nome della TTIP, delle lobby finanziarie, degli inceneritori e del petrolio; o vinceranno le ragioni di chi chiede diritti, dignità, rispetto dei territori e della salute, affermazione del valore d’uso attraverso l’esercizio diffuso, decentrato e dal basso di più democrazia.

Non abbiamo scelto noi il quesito su cui far convergere, in questa delicata fase di transizione autoritaria e centralizzatrice dei poteri, l’intelligenza e la potenza delle reti del conflitto e della proposta per quello che fino a pochi anni fa si definiva comunemente “un altro mondo è possibile!”. Abbiamo, però, nelle nostre mani uno strumento da poter utilizzare, una tabella che indica con chiarezza il percorso praticabile.

Siamo consapevoli che ci attende un percorso duro e pieno di ostacoli, ma dobbiamo essere fieri di quanto siamo riusciti a fare e ottenere sino a questo momento, senza smettere però di essere ambiziosi!
Portare al voto 26 milioni di italiane/i - tanti ne occorrono per il quorum! -, sapendo che i sondaggi danno il SÌ al 40% (previsioni che non erano state date nemmeno per lo scorso referendum su Acqua Pubblica e Nucleare!), deve voler dire avere la capacità di sintonizzarsi fraternamente, solidarizzare, crescere concentrandosi sull’obiettivo. Deve voler dire mettere a disposizione non un freddo dispositivo di propaganda, ma attivare un sentire comune, attivare saperi e progettualità essenziali per la sfida della transizione.

La transizione alle rinnovabili pulite non può essere una delega in bianco alla miglior convenienza delle lobbie energetiche. È anzitutto controllo consapevole esercitato dal basso, attraverso forme di condivisione e formazione/autoformazione costante. È espropriazione del monopolio alienato della scienza e pratica della soddisfazione a misura di bisogni collettivi individuati.


4) LA SPINTA REFERENDARIA COSTRINGE MOLTE COMPAGNIE A FARE RETROMARCIA

Soltanto fino a poche settimane fa sarebbe stato un azzardo immaginare che, dopo la pioggia di richieste di permessi arrivati, alcune compagnie potessero abbandonare il campo.

La spinta referendaria, letta come recepimento formale di una pressione crescente delle lotte sviluppatisi all’interno del Paese, ha creato, contrariamente alla volontà dell’esecutivo centrale, un quadro di forte incertezza normativa.

È un fatto non di poco conto che il Governo sia stato costretto ad emanare un apposito decreto di azzeramento per il permesso “Ombrina mare due” della Rockhopper nel Mare Adriatico, una delle più discusse e controverse concessioni in mare e che, nonostante le ripetute mobilitazioni di massa, i ricorsi e le leggi regionali, sembrava ineluttabilmente in fase di avvio operativo. Inoltre, alcune compagnie petrolifere hanno rinunciato alle proprie istanze di permesso di ricerca: Petroceltic per l’assurdo permesso di ricerca conferito di fronte alle isole Tremiti; Appennine Energy nel Mar Jonio; Shell abbandona i giacimenti nel golfo di Taranto, inviando al Ministero dello Sviluppo Economico la lettera con cui rinuncia al permesso di cercare idrocarburi nel mare fra Puglia, Basilicata e Calabria aventi per oggetto le due istanze d7482fr-sh e d7482fr-sh.

5) I TERRITORI CONTINUANO A CONTARE

In pochi mesi il processo messo in atto dalla strategia referendaria ha consentito di ottenere un vero e proprio capovolgimento dell’impianto centralizzatore e decisionista del famigerato “Sblocca Italia”: il recupero delle competenze regionali nelle procedure di Via.

Un fatto assolutamente importante, ad esempio, per il progetto di ampliamento di “Tempa Rossa” che vede coinvolte due regioni: il petrolio e il gas estratti e stoccati in Basilicata verranno poi lavorati nella raffineria Eni di Taranto. Grazie all’assorbimento dei quesiti referendari negli emendamenti alla Legge di Stabilità, la giunta regionale pugliese potrà nuovamente disporre di  poteri e competenze in merito e, soprattutto, i cittadini e i movimenti potranno tornare a contare e decidere avendo nuovamente un interlocutore istituzionale, sul quale esercitare il proprio peso politico.

Come successo per le mobilitazioni per sollecitare le amministrazioni comunali a deliberare per chiedere ai rispettivi presidenti di giunta regionale l’impugnazione dell’art. 38 dello Sblocca Italia, il referendum agisce da esplicito catalizzatore motivazionale all’azione deliberante di giunte e consigli comunali contro numerose richieste di permessi, come sta accadendo in diversi comuni campani e lucani in questi giorni, dove sono gli stessi sindaci a convocare esponenti di comitati No Triv e movimenti a loro sostegno.

6) RENZI TEME LA DEBACLE PER LE “SUE” RIFORME ISTITUZIONALI

Abbiamo poco tempo per riuscire ad incidere in modo adeguato ed efficace. Il Governo teme così tanto questo referendum da aver scelto la prima domenica utile per legge perché venga celebrato, costringendoci ad organizzare in tempi contingentati una campagna referendaria degna di questo nome. Ha deciso deliberatamente di sacrificare senza batter ciglio l’equivalente dell’ammontare annuale delle royalties - non meno di 350 milioni di Euro! - pur di evitare l’Election Day, fortemente richiesto dai movimenti.

Il presidente del Consiglio non intende in alcun che la strada verso il referendum confermativo istituzionale, stabilito ad Ottobre 2016, che ha per oggetto la revisione del Titolo V della Costituzione, di cui lo “Sblocca Italia” è una sostanziale anticipazione, possa essere ostacolata da altri fenomeni di grande catalizzazione del dissenso.

Lo stesso Renzi ha più volte dichiarato che in caso di sconfitta del “suo” referendum istituzionale abbandonerebbe il ruolo attuale e la stessa politica. Diamo quindi una mano al campione del decisionismo neoliberista a lasciare campo libero ad una grande coalizione per il bene comune!

Il quadro è certamente complesso e dinamico. Gli elettori hanno voglia e necessità, dopo anni di lotte, di potersi esprimere non solo nel merito dei quesiti ammessi, ma dell’intera Strategia Energetica Nazionale.

Il referendum del 17 Aprile rappresenta in realtà un potente momento di accumulo positivo di energie sociali, saperi, creatività, veloce incremento di relazioni operative tra reti consolidate. Raggiungere il quorum in tempi così brevi e sapendo coinvolgere vittoriosamente 26 milioni di cittadine/ italiane/i, significherebbe saper guidare dal basso un intero processo di trasformazione sociale e politica di un Paese ammuffito e intristito da una crisi asfittica, con effetti trascinanti anche per le lotte di altri Paesi europei.